lunedì 31 ottobre 2011

Matteo Eltsin, il Partito e le riforme.

(di Jacopo Vannucchi)

In un testo del luglio scorso, notavo un parallelo tra le vicende del PD ed alcuni fatti dell’Unione Sovietica, in particolare riguardo al succedersi di una fase “riformista” (Veltroni e Chruščëv) ed una di “stabilizzazione” e blocco delle riforme (Bersani e Brežnev). Con il recente protagonismo di Matteo Renzi, un terzo confronto può essere istituito tra questi e l’emergere di Eltsin nella fase finale dell’URSS.

Tuttavia un primo confronto tra Bersani e Renzi può essere avviato a partire da una frase di Nichi Vendola: «Considero Renzi una persona molto interessante, molto simpatica, con una cultura politica essenzialmente di destra. Lo considero incapace di porre il tema della fuoriuscita dal disastro che il liberismo, in un trentennio, ha compiuto nel mondo intero e quindi mi sento molto antagonista delle ragioni di Renzi».

Al di là dell’idiozia secondo cui il disastro sarebbe stato prodotto dal «liberismo» e non invece dal neoliberismo (non per niente Vendola prosegue: «sento una sensibilità comune a quella di Pierluigi Bersani»), è condivisibile la tesi secondo cui Renzi si mostra inadeguato poiché propone di superare la crisi del neoliberismo attraverso la somministrazione di neoliberismo.
Sono inoltre innegabili le sue profonde pulsioni di destra: l’apertura dei negozi il Primo Maggio, il NO a un referendum sull’acqua, l’uso di un linguaggio violento («dirigenti da rottamare», «dinosauri da estinguere»), l’idea che la politica sia essenzialmente un costo per i cittadini, l’abolizione dei vigilini, il recupero di una dimensione “nostrista” (lo slogan Prima Firenze, assimilabile a quello di McCain Country First, al partito della destra polacca PolskajestNajważniejsza), ecc.
La domanda è: perché?
Renzi si dimostra più attento di Bersani (qui usato come nome collettivo per tutti i nostalgici del PCI-PDS-DS) nel guardare alla società, e più fiducioso di lui nelle possibilità dell’azione politica. Tutto il discorso politico di Renzi è volto alla conquista del consenso in due settori sociali: la piccola borghesia e i giovani. La prima si caratterizza come la vera arbitra del potere politico in Italia: chi vince la piccola borghesia vince il Paese. I secondi «sono emersi sistematicamente come una forza decisiva. Sono due settori su cui aveva già puntato Veltroni nei suoi sedici mesi di segreteria, e che sono stati invece abbandonati da Bersani: completamente la piccola borghesia, a favore di un revival operaista volto a riconquistare un voto d’opinione leghista, erroneamente creduto voto ideologico; parzialmente i giovani, di cui si è negata la specificità, negando l'evidenza:«La distinzione giovani-adulti è una stupidaggine di dimensioni cosmiche»: consigliamo a Bersani di andare a dirlo a Obama, che nel 2008 vinse 66-32 tra gli under 30 e 50-49 nel resto della popolazione.
Per consolidare il voto della piccola borghesia, Renzi non elabora però un nuovo pensiero, bensì opera una miscela delle tre importanti esperienze politiche piccolo-borghesi: il fascismo, la Democrazia Cristiana, il berlusconismo. Di queste tre, quella meno evidente è la DC, probabilmente perché in essa non vi erano leaders carismatici bensì un sistema di gestione fondato su una pluralità di correnti, che, ove replicato, lascerebbe a Renzi solo una fetta del potere. Ma anche nel privilegiare i movimenti basati sul culto del Capo, Renzi si dimostra più giovane di Bersani: Bersani è rimasto agli anni Cinquanta, un tempo in cui, sebbene Nenni fosse molto più popolare di Togliatti, il PCI superava ampiamente il PSI. «Nella “Repubblica dei partiti” era fondamentale costruire strutture associative e organizzative volte a stabilire legami duraturi fra centro e periferia, nonché capaci di creare reti di fedeltà solide e durevoli con ampie fasce della popolazione. Invece Nenni […] non colse l’importanza dell’organizzazione nel raccogliere e regolare il consenso nelle moderne società di massa». Oggi, com’è noto a tutti fuorché a Bersani, non viviamo in una società di massa, ma in una società liquida. Risposte sul modello di massa sono destinate a fallire. (Si ricordi la polemica Veltroni-Bersani, quattro anni fa, sulla forma-partito.)
Allo stesso modo, Renzi è certamente vecchio poiché propone un “nuovo ritorno” a politiche reaganiane, sul modello di quanto negli Stati Uniti ho definito “sesto sistema partitico” (1968-2008). Ma Bersani è ancora più vecchio, restando fermo all’impianto socialdemocratico del “quinto sistema partitico” (1932-1968). Ovviamente non è una qualifica anagrafica: il giovanissimo generale Giap, classe 1911, ha criticato la politica mineraria del suo Paese da posizioni ambientaliste.
Per il consenso giovanile, invece, Renzi (consapevole dell’impopolarità della destra tra i giovani) prevalentemente non si affida a una tattica politica, ma a semplici comunicazioni emotive, fatte di “batti il cinque”, jeans, Jovanotti (peraltro già arruolato nell’era veltroniana) e via dicendo. Qui il confronto con Bersani è veramente improponibile. Tuttavia viene anche proposta una peculiare declinazione all’italiana della tendenza dei giovani a «orienta[rsi] verso partiti privi di una ideologia tradizionale. Questi partiti si collocano al centro dello schieramento politico (i liberali, ma anche Bayrou alle presidenziali francesi nel 2007) oppure in una posizione non immediatamente classificabile lungo l’asse destra-sinistra (ambientalisti, pirati, grillini) i giovani si orientano verso partiti privi di una ideologia tradizionale. Questi partiti si collocano al centro dello schieramento politico (i liberali, ma anche Bayrou alle presidenziali francesi nel 2007) oppure in una posizione non immediatamente classificabile lungo l’asse destra-sinistra (ambientalisti, pirati, grillini)». Renzi infatti usa la tecnologia più recente come un alone impalpabile di cui circondarsi, una percezione soffusa, ma al tempo stesso totale, di una radicale alterità rispetto ai «dinosauri». È famoso da anni il suo impiego degli sms come principale mezzo di comunicazione; in questi giorni ha parlato di un «wiki - PD» ed è fotografato «quasi sempre attaccato a un computer o uno smartphone». La grande importanza di questa tecnologia non solo nella materialità della vita, ma anche nella simbologia sociale, è stata recentemente messa in rilievo dalle reazioni alla morte di Steve Jobs. Credo che, oltre a questo, ci sia anche un altro filone, che collega i giovani alle “riforme liberali”. Non saprei dire, però, se ci si propone con esse di conquistare i giovani o, piuttosto, di conquistare i giovani ad esse, né se la tecnologia sia solo un mezzo per rimuovere la distanza politica con i giovani o non anche una proposta di equazione-sillogismo “tecnologia = liberalismo, tecnologia = buono, liberalismo = buono”.
In conclusione, è vero che le idee di Renzi sono «un usato degli anni Ottanta», ma quelle di Bersani sono “un usato degli anni Cinquanta”. Le idee di Bersani sulla forma-partito sono identiche a quelle esposte da Togliatti nel 1951 sul paradosso di un Vittorini che era stato comunista senza avere la tessera. L’attacco di Fassina alla BCE riecheggia l’antieuropeismo da sinistra che già Berlinguer aveva abbandonato.
Renzi può andare all’attacco contro i “burocrati” proprio perché il bersanismo è stato ed è l’ideologia dei burocrati.

Riassumendo il paragone con la storia sovietica, le riforme di Chruščëv avevano incontrato il favore della popolazione, di gran parte del gruppo dirigente, ma l’ostilità quasi totale dei quadri; la stabilizzazione brežneviana incontrò il favore entusiasta dei funzionari e l’adesione iniziale della popolazione, «accontentata facendo di Chruščev il capro espiatorio delle difficoltà nei rapporti tra essa e il regime». Ma l’assenza di riforme e il rifiuto di riconoscere cambiamenti sociali in atto condusse ad un punto in cui lo scollamento tra società e Stato fu in URSS tanto ampio da provocare il crollo completo dello Stato. È in questo quadro, nella seconda metà degli anni Ottanta (appunto) che si inserisce la fenomenale ascesa di Eltsin, segretario del Partito a Mosca, che lanciò «un’intensa campagna contro i privilegi dell’élite che lo rese al tempo stesso popolare e odiato da decine di migliaia di funzionari […] La decisione di girare per la città in autobus spinse la nomenklatura a parlare di populismo, un’accusa cui El’cin rispose sostenendo che non c’era niente di male nella ricerca della popolarità e che era anzi stupefacente che i dirigenti precedenti non avessero desiderato essere popolari». Entrato così in contrasto con la dirigenza, Eltsin fu estromesso da importanti incarichi di partito, ma ciò gli garantì ancora più appeal presso l’opinione pubblica: tra 1989 e 1991 ottenne importanti successi elettorali, riuscendo a sostituire Gorbačëv alla direzione dello Stato, nel quadro della dissoluzione dell’URSS.
A causa del blocco delle riforme, insomma, le soluzioni riformiste si erano radicalizzate: ciò risultò nell’abbandono, oltre che dell’acqua sporca dell’esperienza socialista (corruzione e privilegi), anche del bambino (occupazione e servizi sociali). Come già fu in URSS, c’è una sola via per impedirlo: riformismo, riformismo, riformismo.

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