lunedì 17 ottobre 2011

Perche' "NO" al referendum

(Michail Schwartz)

Dopo il successo dello scorso 12 Giugno grazie al quale si è detto no alla privatizzazione dell’acqua, al legittimo impedimento e al nucleare, l’ondata referendaria torna alla carica con una nuova battaglia: l’abolizione dell’attuale legge elettorale, il cosiddetto “Porcellum”, per tornare a quella precedente, il cosiddetto “Mattarellum”.

Quello che infatti proprio non va giù al popolo degli “indignados” e’ il metodo di selezione della classe politica, un metodo che difende la casta e non lascia spazio ai cittadini per decidere da chi farsi rappresentare. Il grimaldello per arrivare ad una “vera democrazia rappresentativa” consiste in tre quesiti referendari i quali, nel caso trovino il necessario consenso popolare, riporteranno la legislazione elettorale vigente indietro di 6 anni. I vantaggi che questo passo indietro dovrebbe portare, sempre a detta dei promotori sarebbero il fatto che: Con il Mattarellum i cittadini possono scegliere il migliore tra i candidati che si presentano in ogni collegio uninominale, un area che comprende in media circa 100 – 150 mila abitanti. Prevale cioè il candidato maggiormente conosciuto nel territorio per le sue capacità. Si punta quindi sul partito ma soprattutto sulla  persona.

Come in occasione di ogni referendum la spinta emotiva e’ stata forte, ma il passa - parola via internet, i banchetti alle feste popolari e il sentimento di rifiuto per questa classe politica hanno portato più ad una grande partecipazione che ad una vera e propria riflessione (più consona ad una democrazia moderna) sulla natura dell’attuale legge elettorale, su di quella passata e sulle misure per far tornare il sistema politico ad un maggior livello di credibilità.
Proprio per questo ritengo sia necessaria innanzitutto un’analisi più approfondita della così tanto acclamata Legge Mattarella che faccia da tramite ad una seria e costruttiva riflessione su un’eventuale riforma del sistema elettorale sulla base di quelli che sono i problemi dell’attuale legislazione elettorale. Infine ritengo opportuna pure una riflessione sulla bontà in se di questo referendum. Non tanto perché ritenga questo strumento inutile o sbagliato, ma in quanto ritengo porti ad una semplificazione estrema del problema attuale e soprattutto ad una distorsione di quella che è l’immagine del partito e, cosa più importante, di quello che è il suo ruolo primario all’interno di una democrazia rappresentativa, ovvero quello di aggregazione degli interessi e di articolazione dell’offerta.

La Legge Mattarella venne approvata dal parlamento il 4 Agosto del 1993 come conseguenza di un altro risultato referendario, quello promosso da Mario Segni il 18 Aprile dello stesso anno. Essa fu il frutto di un complesso gioco di accordi e di veti incrociati tra i vari schieramenti presenti nell’arena parlamentare e costituì pertanto una soluzione di compromesso (D’Alimonte, Bartolini, 1994). A seguito del vittorioso referendum infatti, il parlamento si trovò a dover cambiare per forza di cose un sistema che presentava a quel punto un senato eletto con sistema maggioritario, ed una camera che prevedeva invece ancora il vecchio sistema proporzionale. Sull’onda del malcontento popolare, qualsiasi tipo di riforma sarebbe andata bene pur di cancellare il ricordo del vecchio sistema, fautore della cosiddetta “partitocrazia” figlia della Prima Repubblica. Ma il lavoro dei legislatori fu più arduo di quanto ci si aspettasse. Infatti, come da prassi in Italia, il parlamento era molto diviso a riguardo. I progressisti, capeggiati dal PDS, spingevano per un sistema maggioritario a doppio turno, cosiddetto “alla francese”, mentre la DC ancora tentennava. Successe però che nella tornata elettorale comunale del ’93 (Legge Elettorale Ciatti, molto simile a quella per la quale spingeva in parlamento il PDS), la sinistra ottenne un notevole successo, pure in numerose città importanti. Questo spaventò la DC che, con l’appoggio dei piccoli partiti (i quali sarebbero scomparsi con un sistema completamente maggioritario), bloccò il progetto di legge, dando vita a quel sistema misto maggioritario – proporzionale che si configurò come un unicum nel panorama dei regimi politici democratici. (Pappalardo – 1994).
La Legge Mattarella prevede la suddivisione del territorio in 26 circoscrizioni. All’interno di ogni circoscrizione il 75% dei seggi complessivi viene assegnata a singoli candidati in altrettanti collegi uninominali, mentre il restante 25% è attribuito, seguendo il principio proporzionale, alle liste concorrenti che ottengono almeno il 4% a livello nazionale. Nel collegio uninominale, ogni candidato deve collegarsi obbligatoriamente ad almeno una lista a livello circoscrizionale.
Sruttura del voto: Le consultazioni si svolgono a turno unico. Ogni elettore dispone di due voti da esprimere in altrettante schede, che, pertanto, possono essere disgiunti. Un voto è finalizzato all’elezione del candidato al collegio uninominale, il secondo viene attribuito ad una lista nella circoscrizione. A tal riguardo l’elettore può esprimere oltre al voto per la lista, anche un voto di preferenza trattandosi di liste rigide.
Al senato invece vi è una sola scheda. I 236 seggi maggioritari sono assegnati allo stesso modo della camera. Quelli proporzionali invece vengono allocati sulla base della cifra circoscrizionale (circoscrizioni regionali) dei gruppi di candidati uninominali collegati tra loro. Stabilito il numero di seggi da allocare proporzionalmente in ogni regione, si procede all’individuazione degli eletti selezionando i candidati sconfitti nei collegi uninominali con la cifra elettorale più elevata.
Il collegamento del candidato alla lista circoscrizionale serve a far funzionare due meccanismi: lo Scorporo e il Ripescaggio. Il primo è un meccanismo atto ad attenuare l’effetto maggioritario alle due camere. Per le elezioni alla camera lo scorporo e’ parziale ovvero, nel conteggio dei voti circoscrizionali, al partito X vengono sottratti un numero di voti pari a quelli ottenuti dal miglior perdente nei collegi dove il candidato collegato al partito X aveva vinto. Al Senato lo scorporo è invece totale ovvero, al partito X viene sottratto un numero di voti pari a quelli ottenuti dal candidati collegati alla propria lista nei collegi dove essi hanno vinto.
Il ripescaggio prevede invece che, nel caso il partito X ottenga a livello circoscrizionale un numero di seggi maggiore dei candidati presentati, i seggi “in esubero” vadano ai miglior perdenti collegati alla lista X nei collegi uninominali.

Dopo aver analizzato, seppur in maniera superficiale, la vecchia legislazione elettorale e alla luce di quelle che sono le rivendicazioni avanzate, a furor di popolo, dal comitato referendario, è possibile affermare che un ritorno al Mattarellum risolverebbe veramente  il nodo principale della questione (ovvero la carenza di rappresentatività intrinseca nel Porcellum)?
Io, personalmente non ne sono molto convinto. Non ne sono convinto essenzialmente per due motivi, uno strettamente legato alla natura della legge Mattarella ed uno legato alla natura del tanto decantato rapporto cittadino – elettore, vero e proprio cavallo di battaglia del “popolo degli indignados” referendari.

In primo luogo e’ necessario chiarire una cosa: il sistema Mattarella non elimina totalmente l’influenza dei partiti sulle candidature nelle varie circoscrizioni, sia a livello di collegio che all’interno della lista anzi, esperienza ci insegna che il suddetto modello (sia per la sua natura maggioritaria, sia per la soglia di sbarramento del 4% della parte proporzionale) crea un coordinamento strategico da parte dei partiti tale da portarli, in particolar modo quelli minori, a coalizzarsi e conseguentemente alla “Lottizzazione” dei seggi secondo criteri non solo quantitativi (quindi basati sui rapporti di forza tra le varie parti), ma pure qualitativi (ergo: per la sinistra il seggio di Varese non vale quanto quello di Reggio Emilia). Certo l’eliminazione delle liste bloccate favorisce il rapporto candidato – elettore, ma chi pensa veramente che i partiti maggiori lasceranno alla volontà popolare la scelta di candidati uninominali frutto delle negoziazioni tra questi e i loro partners di coalizione sulla base dei reciproci rapporti di forza più che espressione di quell’identità d’area tanto invocata dal popolo? La spartizione dei collegi infatti potrebbe avere pesanti riflessi sulla selezione del personale politico. Il vincolo della quota contrattata di collegi spettante a ciascuna controparte, nonché quello correlato della qualità degli stessi collegi  (sicuri, incerti, inespugnabili), può rendere imprescindibile un controllo verticistico sulla designazione delle candidature. Se i candidati fossero infatti scelti non “dall’alto” bensì – ad esempio – tramite primarie aperte, potrebbe risultarne compromesso l’accordo di spartizione e, con quello, pure l’unità di coalizione. (D’alimonte – 1994). Questo rappresenta senza dubbio un elemento di proporzionalizzazione del sistema (D’alimonte – 1994), o quantomeno, un ostacolo rilevante all’affermazione di una logica maggioritaria compiuta.
Un’altra opportunità che il sistema presenta a favore di una strategia verticistica di selezione delle candidature è la possibilità di presentare “liste corte” o addirittura “liste vuote”. Esempio lampante di come quest’opportunità sia stata sfruttata appieno risulta essere quello di Alleanza Nazionale alle elezioni del ’94. In diverse circoscrizioni An presentò in lista solo candidati il cui successo nel collegio era molto probabile, proprio per favorire i propri candidati uninominali eventualmente sconfitti nei collegi della stessa circoscrizione. Fu il caso di Gianfranco Fini, per esempio, che risulta come unico nome in lista sia in Friuli che in Emilia Romagna e che vincendo il seggio uninominale a Roma, ha consentito il ripescaggio di Menia e di Morselli.

In secondo luogo non sono totalmente convinto dell’assoluta bontà del rapporto candidato – elettore. Secondo i promotori del referendum una maggior correlazione tra le due parti porterebbe ad un maggior controllo degli eletti da parte degli elettori con la possibilità di revocare ai primi la fiducia alla seguente tornata elettorale. Il candidato quindi sarebbe maggiormente vincolato al proprio territorio ed al proprio elettorato di nicchia migliorando così l’accountability e la trasparenza della classe politica.
Ma e’ proprio qui che io invece vedo la maggior contraddizione del sistema. Il vincolo locale che si verrebbe a creare tra eletti ed elettori porterebbe, specialmente alla luce della cultura civica che contraddistingue il nostro paese, ad uno stretto rapporto di tipo clientelare e localistico tra eletto ed elettori, il tutto a discapito del bene comune (inteso come bene nazionale). Essendo così fortemente vincolati all’elettorato che li ha votati, i parlamentari cercheranno in tutti i modi di portare il maggior numero di vantaggi al proprio territorio, in modo tale da garantirsi la rielezione alla tornata successiva. Ma siccome il più delle volte l’interesse nazionale non corrisponde con quello locale, verranno a formarsi lobby e correnti assolutamente deleterie per la stabilità sia dei partiti che del governo stesso, con ovvie conseguenze sulla concretezza e l’affidabilità del governo.
Inoltre un maggior rapporto candidato – elettore, porterà sicuramente dei vantaggi a chi è stato eletto alla tornata precedente il quale, forte di una maggior esperienza e una maggior radicazione nel territorio non avrà grosse difficoltà ad ostacolare nuovi candidati nelle competizioni successive. Verranno insomma a crearsi piccoli feudi all’interno dei quali spadroneggeranno i signorotti locali con buona pace di chi invece proporrà un ricambio generazionale. Il tutto a discapito pure delle cosiddette “minoranze” come le donne o, in un futuro abbastanza prossimo, gli immigrati di seconda o terza generazione. Un vantaggio delle tante odiate liste bloccate, se gestite bene chiaramente, è quello di garantire delle quote di partecipazione pure a chi farebbe fatica a farsi spazio panorama politico.

Una seconda domanda che è necessario porsi, e che in ben pochi si sono posti, è: quali sono veramente gli aspetti deleteri del Porcellum? La soluzione referendaria, e quindi un ritorno alla legge Mattarella, eliminerebbe questi aspetti?
Partiamo prima di tutto dagli aspetti più negativi che la legge Calderoli ha portato:
Uno dei problemi è sicuramente quello legato alla differenza tra il premio di maggioranza alla Camera e quello al Senato, fautore di pesanti distorsioni sul risultato elettorale. Infatti, se nel primo caso il premio garantisce il 54% dei seggi (pari a 340) a chi ottiene anche solo un voto in più degli altri (un premio quindi a livello nazionale), nel secondo il premio è diviso e differente per ognuna delle 17 regioni (Molise, Val d’Aosta e Trentino non concorrono al premio) e può quindi essere assegnato a diverse maggioranze a seconda di chi vince nelle varie regioni.
Si evince chiaramente come da ogni differente premio di maggioranza derivi un differente peso per ogni regione. Una lista per ottenere una buona maggioranza in Senato (ovvero più di 158 seggi) deve praticamente vincere in tutte le regioni. Ne risulta un grave handicap: la seria possibilità che una lista abbia la maggioranza alla camera, ma non al senato. Un ritorno al Mattarellum risolverebbe la situazione? Non in maniera certa. Come ci insegnano, per esempio, le elezioni del ’94, uno degli effetti più significativi a cui può portare questo sistema è il cosiddetto “governo diviso” ovvero, la Camera possiede una maggioranza, il senato no. Questa differenza tra Camera e Senato trova le sue origini sia nella componente proporzionale, ben diversa tra le due camere, che nel differente esito della competizione maggioritaria alla Camera rispetto al Senato, esito sul quale ha influito non poco la regionalizzazione del voto al Senato.
Un secondo problema del sistema politico italiano è sicuramente quello della frammentazione partitica. Frammentazione che, nonostante si sia attenuata con le precedenti elezioni parlamentari, è sicuramente uno degli strascichi più significativi dell’attuale Legge Calderoli.
La frammentazione partitica durante la Seconda Repubblica deve la sua formazione e la sua evoluzione in gran parte proprio alla legge elettorale Mattarella del 1993 che ne ha incentivato lo sviluppo grazie non solo all’inserimento della componente maggioritaria (la quale stimola alla competizione “uno contro uno”), ma soprattutto con il mantenimento di una quota proporzionale, quota che ha permesso ai piccoli partiti di coalizzarsi nella parte maggioritaria, ma di mantenere intatta la propria identità, correndo da soli nella parte proporzionale. Il ritorno a livelli di frammentazione limitati con le elezioni del 2008 è stata un’operazione “contro natura” dovuta alla nascita di due grandi partiti, PD e PDL, che, diversamente dal passato, imposero una chiara gerarchia nei rapporti di forza all’interno della rispettiva area politica di riferimento (Chiaramonte – 2010). Questo però non ha eliminato il problema di fondo, intrinseco nella legge elettorale, il quale potrebbe benissimo riproporsi in futuro.
Un terzo problema del sistema politico italiano è quello del “bicameralismo paritario”. Questo problema non è strettamente legato ne alla legge Calderoli ne a quella Mattarella, ma proprio per questo un ritorno a quest’ultima non cambierebbe in meglio la situazione attuale, mantenendola invece in vita. Il bicameralismo italiano infatti è un bicameralismo eguale e perfetto, cioè sovrapposto, in quanto entrambe le Camere godono della stessa legittimazione e svolgono le stesse funzioni su un piano di parità. Questo particolare assetto, che ha il vantaggio di garantire una maggiore elaborazione e ponderazione del processo legislativo, va però a scapito della rapidità delle decisioni, producendo veri e propri ingorghi legislativi. L´Italia è l´unico paese tra le grandi democrazie occidentali in cui permane questo sistema. In Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, la Camera politica è una sola. E’ necessario quindi trasformare il nostro Senato in una sorta di Bundesrat, dove siedano Regioni, sindaci di città capoluogo, presidenti di provincia. Questo renderebbe il sistema legislativo nettamente più efficiente garantendo un bel risparmio sul numero dei Parlamentari.
Un quarto problema del Sistema Politico Italiano, all’interno del quale rientra anche il problema di una riforma costituzionale del Bicameralismo, è quello della mancanza di un’omogenea e adeguata legislazione elettorale di contorno. Se combinate vicendevolmente, i due aspetti (legislazione elettorale e legislazione elettorale di contorno)  costituiscono un elemento di grande rilevanza: nella misura in cui essi sono in grado di concorrere, accanto alla funzione rappresentativa, a quella di strutturazione e consolidamento di un sistema partitico in grado a sua volta di dar vita e sostenere un sistema delle decisioni collettive tale da fornire al corpo sociale le prestazioni di cui ha bisogno (Fusaro – 2008).
Tre sono gli aspetti sui quali sarebbe consigliabile cominciare per lo meno a ragionare: il primo riguarda gli aspetti di contenuto e merito legislativo, come la legislazione sulla cittadinanza e quella sull’elettorato, sia attivo che passivo (per esempio le questioni del voto per i residenti all’estero o dell’abbassamento dell’età per il voto, al senato, ma pure alla camera, come è già successo in Austria; mentre, per quanto riguarda l’elettorato passivo, spicca su tutti il grande tema dell’incandidabilità, dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità tra cariche). Altresì è di rilevante importanza il tema dell’accesso alla candidatura, ovvero le modalità di selezione dei candidati, l’eventuale disciplina pubblicistica di vere elezioni primarie, la garanzia di minoranze linguistiche o la tutela di un maggior equilibrio di genere. Infine e’ necessario verificare la compatibilità e la coerenza con il sistema elettorale prescelto di alcuni aspetti non certamente secondari come la disciplina della campagna elettorale e dell’accesso ai mezzi d’informazione di massa o la disciplina delle spese e dei rimborsi elettorali.
Secondo aspetto riguarda gli aspetti funzionali e organizzativi, come possono essere l’informatizzazione progressiva di buona parte dei vari passaggi operativi e documentali. Si potrebbe inoltre tornare a votare in una giornata sola, come dal 1995 al 2001 in una sorta di Election Day che ridurrebbe notevolmente lo spreco di risorse, agevolerebbe la partecipazione e ridurrebbe gli adempimenti. Si potrebbe infine incentivare la partecipazione elettorale mediante modalità di voto differenziate: mediante voto anticipato, voto a distanza, voto elettronico o per corrispondenza.
Infine ci sono tutti quegli aspetti istituzionali e ordinamentali. Fermo il sistema pluralistico vigente, si potrebbe valutare se istituire un qualche soggetto indipendente cui affidare alcune delle funzioni oggi svolte da questa o quella delle istituzioni statali o locali, ovvero svolte da nessuno.

Dopo aver analizzato tutti questi aspetti e difetti dell’attuale panorama politico italiano, risulta palese la natura semplicistica e riduttiva di un referendum sulla legge elettorale. Con questo non voglio affermare l’inutilità dello strumento costituzionale in se, quanto l’inadeguatezza del suddetto strumento in questo caso particolare. Il problema che i promotori del referendum si propongono di affrontare semplicemente abrogando un paio di norme risulta essere enormemente più complesso e articolato di quanto si lasci credere. Proprio per questo sono convinto non sia compito dello strumento referendario quello di riformare quella parte del sistema politico italiano che per troppo tempo è stato trascurato o, peggio ancora, modificato a piacimento seguendo gli umori del momento. Non a caso la legge Mattarella, definita da molti studiosi un caso ibrido, unico sul panorama internazionale e, a detta dei più maligni, il classico lavoro all’italiana, nacque dalla spinta referendaria che obbligò il parlamento (a sua volta in balia di problemi molto più grandi) a varare in fretta e furia una nuova legge (un contentino per la società civile che così vedeva esercitati i propri diritti), senza però la necessaria personalità e forza per poter cambiare veramente in toto quello che era un sistema che volgeva ormai alla sua conclusione. Prova  ne sono le questioni fondamentali ancora irrisolte o parzialmente risolte, come quella sul conflitto d’interessi o sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa e di tutta la legislazione elettorale di contorno.
Come fare quindi per riformare il malandato sistema italiano? “Abrogato” l’istituto referendario io credo che una riforma della legislazione elettorale sia primariamente compito dei partiti. Questo non implica il fatto che, come le spinte populistiche attuali ci portano spesso a credere, non sia anche compito della società civile. E’ pure compito suo, ma lo sforzo dei cittadini nel cercare di cambiare il sistema attuale deve svilupparsi e articolarsi, attraverso i partiti, nell’arena parlamentare, vero campo all’interno del quale questa partita deve essere giocata. I partiti devono saper recuperare le loro precipue funzioni di aggregazione della domanda e di articolazione dell’offerta in modo da sviluppare una proposta di legge organica e coerente con il sistema elettorale prescelto, in funzione degli obbiettivi che grazie ad esso si cerca di perseguire (in termini di capacità rappresentativa, di governabilità, di riduzione della frammentazione e così via) dando vita così non solo ad una proposta di legge elettorale, ma ad un intero impianto di norme volte a svecchiare e riformare un sistema ormai troppo vecchio e usurato. Una riforma di tali dimensioni non può quindi prescindere dall’azione partitica, così come la democrazia stessa (della quale la legislazione elettorale e’ un tassello fondamentale) non può prescindere dai partiti stessi e dal loro ruolo al suo interno. Con buona pace di Beppe Grillo e dei Referendari.

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