lunedì 24 ottobre 2011

Partito Democratico e Vocazione Maggioritaria: Se non ora, quando?

(di Michail Schwartz)

Il 14 Ottobre del 2007, dalla fusione di Margherita e DS, nasceva il Partito Democratico e lo stesso giorno, a seguito di elezioni primarie, veniva eletto il suo primo segretario: Walter Veltroni; ma su un luogo e una data in particolare vorrei volgere l’attenzione in questo articolo: Orvieto, 19 Gennaio 2008.

Proprio quel giorno infatti, ad un convegno organizzato dall’associazione Libertà Futura, Veltroni delineò esplicitamente quella che sarebbe stata la strategia del Partito Democratico da lì alle elezioni primaverili. Le sue parole furono decise e non lasciarono spazio a fraintendimenti – il PD correrà da solo, con qualsiasi sistema elettorale -. Con questo annuncio il leader dei Democratici puntava in primis a smantellare le coalizioni “raccatta tutti”, ingovernabili per via dell’esorbitante potere di ricatto dei partiti piccoli  e dunque incapaci di governare il paese, ma soprattutto a caratterizzare il Partito Democratico come partito a “vocazione maggioritaria”, impegnato ad assicurare la governabilità e a promuovere una politica più semplice, meno frammentata e per questo capace di accrescere la responsabilità istituzionale di partiti ed eletti. (Di Virgilio, 2008).

Vocazione maggioritaria significava innanzitutto che il Partito Democratico sarebbe stato disponibile a trattare con gli altri partiti di centrosinistra accordi che rispettassero tre condizioni:
1)      Condivisione del programma
2)      Rinuncia al simbolo
3)      Confluenza nelle liste (e nei gruppi parlamentari) del PD
Il correre da soli venne cioè interpretato come “correre liberi dal vincolo di coalizione” ridimensionando nettamente rispetto al 2006 i partiti più piccoli, che vedevano così ridotto il loro potere di ricatto e quindi i loro margini negoziali. (Di Virgilio, 2008)
I primi a farne le spese furono i Socialisti italiani di Boselli, esclusi dai negoziati in quanto riluttanti nell’accettare le condizioni poste da Veltroni e dal Partito Democratico (si dichiararono indisponibili a presentare i propri candidati nelle liste democratiche e reclamarono l’apparentamento).
Coi Radicali andò invece meglio. Essi accettarono le tre “condizioni maggioritarie” in cambio della concessione da parte del Partito Democratico di nove posti sicuri, più una quota di spazi televisivi da gestire in proprio e il riconoscimento del 10% dei rimborsi elettorali.

Pure Silvio Berlusconi si mosse in questa direzione, scegliendo però di non correre completamente da solo, ma di raggruppare sotto un'unica sigla Forza Italia e Alleanza Nazionale. La nuova “vocazione maggioritaria” accrebbe il margine d’azione del coalition maker. Come Veltroni, Berlusconi si trovò nella condizione di ridefinire il proprio campo attraverso una politica delle mani nette che obbligò alleati e postulanti a scegliere tra dentro (ossia: rinuncia al proprio simbolo, adesione al nuovo contenitore, presentazione dei candidati nelle liste del nuovo PDL e, a termine, ingresso organico nel nuovo partito) o fuori (ossia: corsa solitaria contro le soglie di sbarramento non piccole previste per terze forze e terze coalizioni) (Di Virgilio, 2008).
Berlusconi stabilì un asse privilegiato con Fini. L’intesa prevedeva la formazione di gruppi parlamentari comuni. Le proporzioni erano di 70 a 30 fra FI e AN e la compilazione delle liste fu affidata ad una cabina di regia composta da un pugno di dirigenti dei due partiti.

I risultati delle elezioni non furono certo favorevoli a Veltroni e al suo partito, ma essi furono da imputare soprattutto al generalizzato trend negativo che colpì il centrosinistra in quelle elezioni. Il PD fece bene all’interno di un’area politica che fece male, a causa soprattutto del forte astensionismo derivato dalla delusione verso l’appena dimissionario governo Prodi. Detto questo non si possono accantonare due dei principali motivi per cui fu scelta la strategia maggioritaria: 1) Recuperare la maggior parte dei voti della sinistra radicale facendo leva sul voto utile 2) Guadagnare voti dal centro e dalla destra grazie alla maggiore credibilità dovuta alla novità della presentazione di un partito nuovo. Nel primo caso si può dire che il PD riscosse un successo parziale: la sinistra radicale ebbe un calo vertiginoso di consensi e non riuscì ad entrare in parlamento; da questo crollo di consensi il PD usufruì per un ammontare di 1.300.000 voti; tanti, ma non abbastanza, complice il trend negativo della sinistra in generale. Nel secondo caso credo che il fallimento della strategia sia imputabile soprattutto ai tempi, non ancora abbastanza maturi per poter anche solo pensare ad uno sfondamento al centro. Il governo Prodi era appena caduto rovinosamente sotto i colpi dei partiti minori, l’astensionismo a sinistra era crescente così come la credibilità nei suoi confronti. Ciò non toglie che l’idea di fondo sia corretta. Un partito unico ed unitario potrebbe attirare numerosi elettori che per il momento darebbero la loro preferenza al centro.

Come già detto, ai tempi la vocazione maggioritaria rappresentò più che altro una svolta fine a se stessa, una rivoluzione dell’offerta più utile ai politologi che ai vertici del PD, la soluzione ad una difficile equazione: perdere bene anziché perdere male.
Oggi invece credo sia giunto il momento di renderla funzionale al panorama politico che si va prospettando, un panorama politico dominato dall’incertezza non solo economica, ma anche politica.
La tanto attesa fine del berlusconismo potrebbe portare a numerosi stravolgimenti all’interno delle strategie partitiche. Il PDL potrebbe perdere la sua ragione d’essere, dando vita così ad una frammentazione e ad una diaspora che porterebbe il centrodestra a rimodellarsi secondo logiche e alleanze ancora non prevedibili, ma che difficilmente potranno assumere la consistenza di quelli che sono stati i partiti guidati dal cavaliere (Forza Italia CDL ed infine PDL). Alcuni partiti garantisti e giustizialisti, come l’IDV o FLI, con il venir meno del loro avversario numero uno, perderebbero molti dei loro argomenti e del proprio elettorato, faticando così a ritagliarsi uno spazio all’interno del loro solco ideologico di riferimento, già saldamente occupato dal PD e da SEL. A loro volta i vari partiti personali, a partire proprio da SEL, risentirebbero a lungo andare della carenza di una struttura partitica forte, finendo così per perdere pezzi lungo la strada della “rivoluzione dell’offerta”.
Anche la Lega Nord, che pure e’ sempre sembrata forte e coesa attorno a Bossi, non è più così unita. La spaccatura tra la base e i vertici, condita dalle spinte scissioniste (politicamente parlando) dei vari Tosi e Maroni, sembrano indicare per la Lega un futuro non più così roseo.
In tutto questo marasma il PD può vantare qualcosa che gli altri partiti non posseggono: una struttura partitica, forte e ben definita. Qualsiasi tempesta sia in arrivo con la fine di Berlusconi, il Partito Democratico sembra in grado farne fronte ed e’ proprio in questo scenario di incertezza che deve farsi largo l’idea di una nuova VOCAZIONE MAGGIORITARIA. La possibilità di correre da soli porterebbe numerosi benefici, all’interno del partito e al livello elettorale. Fino a questo momento la sinistra ha dovuto ricorrere alle grandi coalizioni per cercare di battere un centrodestra il più delle volte unito (e in Italia, si sa, la Destra unita vince) per poi sgretolarsi sistematicamente a causa delle pressioni esercitate dai componenti delle coalizioni stesse. Oggi lo scenario si presenta molto diverso: Innanzitutto il centrodestra non e’ unito. Al momento si possono contare almeno 5 fronde interne, ben distinte e poco inclini a scendere a patti: Quel che resta del PDL, FLI, Lega, UDC e il cosiddetto fronte degli industriali (i quali non s’e’ ancora ben capito se abbiano intenzione o meno di scendere in campo, ma che sicuramente giocheranno un ruolo fondamentale nell’influenzare la nuova generazione di Liberali). In secondo luogo non sembra che le varie formazioni abbiano reali intenzioni di scendere a patti, unirsi e correre insieme in vista delle prossime elezioni. La colla Berlusconi ormai non fa più presa, il PDL vale molto meno, la Lega pure, il Terzo Polo deve ancora trovare un’identità definita e soprattutto un leader comune. Insomma il quadro per i “liberalconservatori” non e’ dei più confortanti; può darsi che la “minaccia socialista” possa portare ad unioni dell’ultima ora, ma ripartire da zero, dopo 20 anni di dominio Berlusconi non e’ cosa semplice.
Come già detto, e’ proprio su queste debolezze che il Partito Democratico deve far leva per vincere la prossima tornata. Le ultime elezioni ci hanno detto che il PD, da solo, ha preso il 33% dei voti; era dai tempi del grande PCI di Berlinguer che un partito unico della sinistra non prendeva tanto. Il tutto senza contare i numerosi voti andati al resuscitato Di Pietro, unico coalizzato col PD, in grado di intercettare i voti di chi ha potuto così coniugare identità e voto utile. Il PD, con la sua vocazione maggioritaria, ha intercettato un’enorme fetta dell’elettorato di estrema sinistra, tant’e’ che l’allora partito di riferimento (Sinistra Arcobaleno) non ottenne nemmeno un seggio in parlamento. Le elezioni poi andarono male, ma questo era già stato appurato dalla maggior parte degli addetti ai lavori ben prima della “svolta maggioritaria”. Tuttavia il risultato fece ben sperare in vista di un futuro contrassegnato da un unico grande partito della sinistra sul modello socialdemocratico delle maggiori democrazie europee.
Ora e’ venuto il momento di riportare in luce il vecchio progetto. Il PD deve fare lo sforzo di presentarsi già da adesso “solitario” alle prossime elezioni. Senza cercare alleanze o rincorrere i leaders della sinistra. Il PD sta perdendo in consenso, credibilità e in comunicazione soprattutto per il tentennare di Bersani di fronte al dilemma delle alleanze (meglio un Nuovo Ulivo o un alleanza col Terzo Polo?). In ognuno dei due casi il partito perderebbe una fetta di elettorato e ne guadagnerebbe un’altra, ma se nel primo buona parte dell’elettorato piu’ progressista potrebbe abbandonare le fila andando così a rimpolpare quelle di SEL e IDV (creando così un pericoloso secondo partito della sinistra), un Nuovo Ulivo, non solo implicherebbe la perdita di numerosi “MoDem”, ma costringerebbe Bersani (o chi per esso) a rischiose primarie di coalizione contro candidati mediaticamente più forti nonché l’esposizione a imboscate sugli argomenti più delicati, quali sono il lavoro, i diritti civili e le misure economiche.
Un ritorno alla vocazione maggioritaria invece migliorerebbe sensibilmente la governance interna e aumenterebbe l’autonomia di un partito che non ha bisogno di subire e digerire a forza le proposte altrui, consentendogli, in caso di vittoria alle elezioni, un’indipendenza decisionale libera da vincoli coalizionali, fattore fondamentale per la durata del governo stesso.
A livello prettamente elettorale il discorso e’ più complicato ed è necessario affrontarlo coi piedi di piombo, ma credo che i margini per la buona riuscita del progetto ci siano. Ci sono innanzitutto per le difficoltà già elencate della destra. Non sarà più necessario presentare un’accozzaglia eterogenea e omninclusiva per riuscire a sconfiggere un centrodestra sgretolato, decimato e attraversato da lotte interne; il margine di vittoria sarà più netto e definito.
La scelta maggioritaria porterebbe inoltre con se anche parecchi voti di chi, nel caso di un Nuovo Ulivo per esempio, indirizzerebbe la propria preferenza verso gli altri partiti, usufruendo così del voto utile, senza però danneggiare la coalizione. Le scorse elezioni ci hanno mostrato come la Sinistra Arcobaleno si sia completamente svuotata a favore del Partito Democratico e così sarebbe stato pure per l’IDV se non fosse stato letteralmente resuscitato dalla scellerata apertura di Veltroni nei suoi confronti. In tantissimi italiani serpeggia la pura e semplice voglia di mandare a casa Berlusconi, ed un PD unito rappresenterebbe agli occhi dell’elettore razionale l’unica vera alternativa di governo.
Infine la vocazione maggioritaria non significherebbe affatto l’estromissione dai giochi degli altri leaders; essi saranno ben accetti all’interno del Partito Democratico, ma a patto che confluiscano in tutto e per tutto in esso rinunciando ad un proprio simbolo, ad un proprio programma e a propri gruppi parlamentari indipendenti, il tutto a favore di una leadership del gruppo e di una governance interna più forti e decise a perseguire un cammino comune.

Probabilmente in questo momento, con le elezioni ancora in lontananza, l’idea può sembrare una semplice eresia e ragionare in questi termini può sembrare fuorviante, ma con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale una mossa del genere costringerebbe gli altri partiti ad una profonda riflessione e a delle scelte ben ponderate sul loro futuro, pena la scomparsa dal panorama politico. A quel punto non sarebbe più il PD a dover fare i salti mortali nel tentativo di accontentare tutti i propri alleati di coalizione, sempre pronti ad alzare la posta in palio in cambio della tenuta della coalizione, ma proprio gli altri a doversi piegare alle logiche di un centrosinistra finalmente maggioritario.
Ripeto, la vocazione maggioritaria può sembrare un azzardo, può sembrare rischioso, ma il gioco (ovvero l’autonomia e il futuro della sinistra) vale sicuramente la candela.
Se non ora quando?

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