lunedì 17 ottobre 2011

Ceto politico italiano, un problema di formazione della classe dirigente.

(Michail Schwartz)

Ormai se ne sono accorti tutti, anche il governo, e’ tempo di crisi. E insieme alla crisi cresce pure il malcontento popolare. Come spesso accade il sentimento di ribellione, sospinto da numerose e forti correnti populistiche,  si è accanito contro la classe politica in toto, da destra a sinistra senza distinzione alcuna. In nostri parlamentari, i nostri senatori e in particolar modo il nostro governo, sono accusati di condurre una vita troppo agiata per il momento difficile che attraversa il paese. Una vita fatta di stipendi gonfiati, privilegi da casta e pensioni a dir poco generose, il tutto a fronte di una scarsa produttività, come testimonia la confusione che regna all’interno del governo mentre cerca di varare una manovra d’emergenza per far fronte alla grave crisi attuale e come testimoniano le numerose poltroncine costantemente lasciate vuote dai parlamentari inadempienti. Il tutto, come già detto, in un periodo in cui sarebbe più apprezzabile uno sforzo collettivo per dare un segnale al paese, come a dire "anche noi cerchiamo di metterci la nostra parte" (se non altro quella).

A ben vedere però non tutte le accuse che vengono lanciate ai politici nostrani sono completamente fondate. Se infatti con alcune, come la partecipazione, la produttività e le pensioni dorate, mi posso trovare d’accordo, ritengo che per quanto riguarda le altre sussista il rischio che queste accuse possano degenerare ben oltre il loro peso reale, finendo così per risultare deleterie per l’intero sistema. Sono convinto quindi si debba aprire uno spazio di riflessione più profondo per analizzare quelli che sono invece i veri problemi della cosiddetta “casta”, la quale altro non è che un insieme di persone che col tempo ha perso praticamente tutta la propria credibilità, arrivando al punto (estremamente pericoloso) di mettere in dubbio addirittura la propria legittimità.

Il problema principale della classe politica italiana non sono tanto i privilegi di cui gode e nemmeno gli stipendi che percepisce (per carità sempre troppi e troppo alti rispetto al carico di lavoro, teorico ed effettivo), ma l’assoluta mancanza di credibilità che s’e’ venuta a creare attorno ad essa, scarsa credibilità che deriva da un’assoluta incapacità di far fronte, oltre che ai problemi reali del paese, alle dinamiche interne del sistema politico stesso. Scarsa credibilità che poi s’e’ tradotta in accuse verso il suo portafoglio, rialimentando il circolo vizioso.
Questo problema ha radici che possono ritrovarsi all’inizio degli anni ’90 con la creazione di quella che gli studiosi chiamano Seconda Repubblica, e ha come maggiore responsabile niente meno che il Cavalier Silvio Berlusconi.
Aldilà infatti di tutta la retorica, il cosiddetto “berlusconismo” ha portato ad uno stravolgimento totale non soltanto del quadro partitico e della maniera di far politica, ma anche della formazione del personale politico.
Con l’avvento di Berlusconi hanno cominciato a sedersi alla Camera e al Senato, non persone con alle spalle una solida esperienza politica, ma fidati collaboratori del capo, fedeli servitori legati non tanto dalla stessa appartenenza partitica (in quanto il partito era ed è lui, Silvio), ma da un vincolo di fedeltà dovuto al fatto che è stato proprio lui, Silvio, a prenderli e a gettarli nell’arena parlamentare, in quanto personale già testato e fidato in azienda. Questo nuovo ceto politico non agisce con una logica partitica volta, se non altro, al bene del partito, ma con una logica di tipo imprenditoriale, importando nell’arena decisionale un modo di fare che aveva si avuto successo nel campo aziendale, ma che niente ha a che vedere con l’ambito politico e con il governo del paese. Se per governare un paese bastasse mettere a capo un buon amministratore, il Montezemolo o il Guido Rossi di turno, sarebbe tutto molto più semplice e non ci troveremmo nella situazione attuale. Ma la politica è ben altra cosa: è mediazione, dialogo, a volte anche scontro. E’ ricerca di un compromesso.

Così, con l’avvento del Cavaliere, il partito, inteso in maniera classica, è andato sempre più a perdersi per far spazio ai cosiddetti partiti personali. Questi possono presentare numerosi vantaggi, come la rapidità decisionale e una gestione (apparentemente) semplificata e ben si prestano al sistema politico (egemonizzato dal berlusconismo), migliorando la comunicazione e l’immagine di se stessi, ormai coincidente con la figura carismatica e mediaticamente forte del leader. Allo stesso tempo però possono presentare pure degli svantaggi, sia per se stessi, che per l’intero sistema. La principale domanda che si deve porre un partito personale infatti è: cosa succederà ad esso dopo la scomparsa del leader? Il fatto che la struttura amministrativa del partito sia praticamente nulla fa si che non si venga a formare nel tempo un ricambio generazionale, portando così il partito a deperire lentamente di “vecchiaia”. La mancanza di una struttura burocratica (che porta di conseguenza i vertici a comunicare agli elettori solamente tramite canali di comunicazione di massa), fa inoltre si che vi sia una grave carenza dialettica all’interno del partito, portando così questo ad essere riconosciuto dall’immagine più o meno brillante (a seconda del momento) del leader più che dall’identificazione dell’elettore in un programma dibattuto e discusso insieme ai propri militanti e al proprio elettorato. Il tutto a discapito del processo democratico il quale fa sempre più fatica a partorire politiche omogenee e coordinate tra di loro.
Non è completamente escluso che vi siano dei “discepoli” pronti a farsi carico dell’eredità del leader e a portare avanti il progetto, ma questi incorrono il più delle volte in numerose difficoltà, le quali spesso preludono alla capitolazione del partito: Nel caso il “delfino” sia scelto dal leader stesso, bisogna vedere se esso sarà accettato da tutti i vertici del partito (è il caso più recente di Alfano). Il più delle volte invece, a predominare e’ una faida tra le varie correnti interne, ormai libere dalla “presa” del leader, che portano a scissioni in numerosi partiti minori, destinati per lo più a scomparire (e qui è nitido il caso leghista).

Tornando quindi al problema iniziale è ovvio che la mancanza di credibilità del ceto politico non possa che derivare dalla sua incapacità di gestire il dibattito politico il quale, a differenza dei partiti, è rimasto bene o male lo stesso. Un ceto politico che si forma attorno ad un leader carismatico o che giunge ai vertici perché fidato collaboratore a Fininvest piuttosto che figlio del leader stesso, è per foza di cose destinato nel corso del tempo ha sopperire di fronte a quelle che sono le dinamiche interne ed esterne della politica.
Veniamo quindi alla conclusione del ragionamento. Prima ho scritto che è una questione di formazione della classe politica e credo qua sopra di averne dato una spiegazione. Per andare quindi oltre questa crisi della classe politica, per andare oltre il berlusconismo e i partiti personali, oltre questa crisi di credibilità che colpisce allo stesso tempo il sistema interno, ma anche l’Italia come paese nell’Unione Europea e nel mondo, è necessaria una rivalutazione del partito politico e soprattutto della formazione della classe politica al suo interno. Perché tra le funzioni di un partito nella democrazia non c’e’ soltanto quella di sviluppare politiche pubbliche articolando e sintetizzando quelli che sono gli input della società civile, ma c’e’ anche quella di formare il nuovo ceto dirigente, di portare all’interno degli organi decisionali persone che abbiano maturato una notevole esperienza all’interno del sistema, e che quindi sappiano gestire il sistema democratico in maniera tale da non farlo collassare e di renderlo credibile agli occhi dell’opinione pubblica, interna ed estera.

Personalmente non ritengo il drastico abbassamento degli stipendi e la cancellazione dei privilegi una manovra efficace e primaria nel contrastare la carenza di credibilità della cosiddetta “casta”, ed anzi, ritengo che questa misura possa rivelarsi estremamente rischiosa per il paese, nonchè per la democrazia stessa. Proviamo ad immaginare un azzeramento dei benefici ed un abbassamento degli stipendi al pari di uno statale medio: cosa succederebbe? Una cosa molto semplice. In politica scenderebbero solo i pochi che possono permettersi di abbandonare la propria attività, spendersi in politica, senza subire troppe perdite. La politica tornerebbe a quel modello notabilare che caratterizzò l’Italia nei primi anni della sua formazione, quando la politica era fatta  solamente dal 2% della popolazione e il paese era veramente governato da una casta! Inoltre, credete davvero che un avvocato, piuttosto che un primario, lascerebbero il loro posto per gettarsi in politica, per subire tutte le pressioni che ne conseguono, il carico di lavoro che ne comporta, i continui spostamenti a Roma o per l’Italia, per 1500/2000 euro al mese? Io credo proprio di no. In politica scenderebbero solo pochi “aristocratici” per difendere e perpetuare i propri interessi, il tutto a discapito del Paese.
“Ma tanto”, si dirà, “i poveracci non ci arrivano comunque in parlamento, governano sempre gli stessi”. Questo è si vero, ma è diventata prassi da quando i partiti (intesi sempre nel loro significato più classico del termine) hanno smesso di essere tali, assumendo le sembianze di grosse associazioni volte alla promozione dell’immagine del leader. La politica sotto il berlusconismo è la principale causa della perpetuazione dello stesso personale politico per oltre un ventennio.
Un’ascesa politica per chi proviene dai ceti bassi e meno istruiti è invece possibile, e non può che essere veicolata dal partito, il quale istruisce l’individuo, gli fornisce un bagaglio d’esperienza necessario attraverso candidature a livello locale, ed infine lo coopta ai vertici del sistema politico, ormai in grado di districarsi all’interno della “giungla” parlamentare e politica. Al di la di quelle che sono le sue credenziali di partenza.

E’ necessaria quindi, per andare oltre questo periodo dominato dal berlusconismo e dalla superficialità politica, una rivalutazione della politica come mestiere, perche’ di questo realmente si tratta! L’arte del buon governo non si puo’ improvvisare e non si puo’ neanche importare da qualche modello aziendale. Sono necessari anni di specializzazione, di praticantato e di lavoro nelle sezioni, nei circoli, nelle piazze. Anni nei consigli e nelle giunte comunali, provinciali e regionali. Anni spesi a contatto con la gente e con chi condivide l’esperienza politica. E’ necessario che si formi all’interno dell’individuo quella capacità dialettica che allena la personalità allo scontro politico e quella relazione con il territorio che solo la militanza in un partito, qualsiasi sia la sua bandiera, può darti!
Per questo sono convinto che se una speranza c’è, non puo’ che essere riposta nelle numerose sezioni e federazioni che ancora sopravvivono all’intemperie populiste e berlusconiane e che giorno dopo giorno ancora formano una nuova classe dirigente, al servizio del partito, al servizio del territorio, ma soprattutto al servizio del bene comune.

2 commenti:

  1. Concordo con il tuo pensiero, la tua analisi è molto lucida e, a mio parere, estremamente corretta. L'unica cosa su cui non sono del tutto d'accordo: con il diminuire gli stipendi e/o i privilegi parlamentari (non ovviamente in maniera così radicale come tu hai scritto, in maniera evidentemente esemplificativa), ma diciamo, adattarli alla media europea, non credi che lentamente il ceto politico verrebbe "integrato" più da gente che vuole far politica per passione e che davvero ci tiene (per così dire) e meno da parassiti attirati solo dal denaro (vedi uno Scilipoti qualsiasi)?

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  2. Certo hai anche te ragione, il mio riferimento infatti credo sia rivolto ad una riduzione degli stipendi e dei privilegi non in quanto alti, ma in quanto "gonfiati", e assolutamente sproporzionati verso quelli che sono i risultati ottenuti dalla sede istituzionale di riferimento (a questo proposito ti consiglio questo articolo http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002573-351.html, veramente brillante). Io accetto volentieri un governante che guadagna nettamente più di me, ma a patto che questo sia prima di tutto più abile di me, più intelligente e soprattutto che si riesca a sobbarcare l'onere di portare avanti e se possibile migliorare il sistema in cui vivo.
    Per quanto riguarda gli Scilipoti di turno: beh, le mele marce ci sono sempre, e tentare di eliminarle per via legislativa mi sembra alquanto riduttivo, per questo penso (e spero di averlo argomentato in questo articolo) che la soluzione non possa che essere un miglioramento del processo di formazione della classe politica, perchè e' a monte che sta il problema. E' una sfida ardua, lo so, ma credo vada nella direzione più consona ad una democrazia partecipata e partecipativa come quella in cui ci troviamo...

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