venerdì 28 ottobre 2011

Simoncelli e la Crisi: origini e cause di una commozione pubblica.

(di  Jacopo Vannucchi)

Il clamore suscitato dalla morte di Marco Simoncelli mi ha lasciato veramente sconcertato. È stato per me impressionante come il Paese abbia vissuto intensamente la scomparsa e il funerale dello sportivo. Un tale evento richiede, evidentemente, una riflessione che superi lo sconcerto iniziale e analizzi quali nodi irrisolti si celano dietro l’esplosione del lutto.
Nel 2001 fu vittima di un incidente stradale il calciatore diciassettenne Niccolò Galli. L’anno seguente, in una circostanza analoga, perse la vita il collega Vittorio Mero, di ventisei anni. Non si ebbe alcuna esplosione pubblica di dolore.
La giovane età del ragazzo, oggi così influente nell’orientare la commozione pubblica, non aveva dunque – solo dieci anni fa! – un effetto determinante. Si aggiunga che lo sport più seguito e partecipato in Italia non è il motociclismo, bensì il calcio, e dunque ci si potrebbe aspettare che un fatto tragico sia tanto più  vissuto quanto più popolare è il settore in cui esso avviene.
Così non è.
Pongo un altro termine di confronto. Quasi un anno fa venne improvvisamente a mancare Tommaso Padoa-Schioppa, già vicedirettore generale della Banca d’Italia, presidente della Consob, ma conosciuto al grande pubblico soprattutto per il ruolo di ministro dell’Economia da lui ricoperto nel secondo governo Prodi. Virtualmente nessuno, neppure tra i militanti delle forze politiche che avevano sostenuto tale governo in Parlamento, provò un qualche interesse al fatto.
Eppure, se una morte assume una dimensione pubblica è perché la perdita è sentita da tutto il pubblico: e non potendo essere, come nel caso dell’ambito familiare, una perdita sentita al livello privato dell’esistenza, è al livello della vita civile, della vita associata, che si fa riferimento. La conclusione è a dir poco disarmante: in una completa inversione dei ruoli che in vita avevano ricoperto, Marco Simoncelli, e non Tommaso Padoa-Schioppa, è risultato un personaggio pubblico. Si obietterà che non è la dimensione pubblica della persona, ma l’affetto che si nutriva per lui, a causare il generale raccoglimento. Ma è proprio l’affetto generale che rende pubblico (cioè publicus, *populicus, del popolo in quanto collettività organizzata) un personaggio che altrimenti (in quanto sportivo) non lo sarebbe.
Perché, dunque?
La questione può essere analizzata su due fronti, facenti riferimento l’uno agli effetti della crisi economica, l’altro alle sue cause.
La crisi economica investe le vite private della sensazione di precarietà: precarietà del lavoro, del reddito, dello studio, della famiglia. In assenza di un movimento rivoluzionario di riscatto – tali non sono considerabili le esplosioni di collera popolare degli indignados, poiché come ci ha avvertito Pietro Ingrao «indignarsi non basta» – questa precarietà è soltanto subìta. Si tenta di contrastarla al livello privato, fatta eccezione per la dimensione di lotta sindacale, relativamente al settore lavorativo, dimensione in cui però non è inclusa la maggior parte dei giovani – vale a dire, dei coetanei di Simoncelli. La morte di un giovane, e ancor più il suo carattere improvviso, ripropongono nuovamente il terrore dell’assoluta improgrammabilità della vita. Il giovane si identifica in Simoncelli non solo e non tanto per l’età (la cosa, infatti, non valeva evidentemente per Galli o per Mero), ma per il sentirsi, come lui, travolto da un fato (due motociclette da corsa) contro cui è vano ogni tipo di resistenza. Fato di cui, nel 2001-02, in assenza di recessione, si poteva beatamente non percepire. Questo “ricordati che devi morire”, ben lungi dal suscitare uno scatto, un impulso alla vita, scade nella celebrazione dell’uomo pubblico e nell’autocommiserazione personale. Se infatti il campione dello sport, il volto televisivo, può ricevere, pur nell’annientamento, un’apoteosi postuma, il giovane comune, lo studente comune, il disoccupato comune, l’indignado comune, resta un individuo sconosciuto, un batterio in una colonia, indistinguibile e insignificante. Questa, almeno, è la percezione ch’egli ha di se stesso. Il Basso Impero non è caratterizzato soltanto dalla degenerazione morale e dalla corruttela della classe dirigente: esso si riflette anche nella mancanza di valori della società civile. Questa amoralità può degenerare, e spesso degenera, nell’immoralità, ma anche aggrapparsi a simboli che immorali non sono, come chi, su una nave che affonda, si affannasse a raggiungere la cabina del capitano, per trovarvi una morte che intende, così, nobilitare – o per compiere, forse, un’ultima proiezione di se stesso frustrato.
Questo quanto agli effetti della crisi.
Ma è troppo semplice puntare il dito e incolpare della crisi alcuni soggetti ormai quasi mitologici – i “banchieri” che hanno provocato la crisi sembrano ormai, nell’allocuzione che se ne fa in società, un po’ quei “diavoli incubi” in cui nel Medioevo veniva individuata la causa delle gravidanze conventuali. Se un’irresponsabilità – una «veduta corta» – vi è stata, essa è stata generale, condivisa dal banchiere, dal politico, dall’impiegato, dallo studente. È facile lamentarsi dei giuocatori d’azzardo di Wall Street, o dei festaioli di Arcore: ma nella nostra vita privata, e nei nostri scampoli di vita pubblica, cosa è stato fatto? Un qualsiasi giovine italiano potrebbe dire di essersi sempre comportato correttamente, di non aver mai ritenuto che il fine di una relazione amorosa fosse il divertimento, la “festa”? Ed egli certamente dirà che questa festa è stata all’insegna “della più completa eleganza, del più completo decoro”. Quando si accusa l’imperatore di non distribuire più grano alla plebe, la prima cosa da fare è negare recisamente di aver mai ricevuto del grano, di aver mai fatto parte di uno squallido sistema di consenso sociale. Quando si trova osceno che Berlusconi si dia alla pazza gioia in tempi di vacche magre, la prima cosa da fare è negare che, in tempi di vacche grasse, si è fatto o si è desiderato fare la stessa identica cosa. Quando il giovane indignado grida contro qualcosa che neanche lui sa bene cosa sia (forse solamente il destino), egli rimuove dalla sua persona tutte le impurità e irresponsabilità che lo hanno fin lì ispirato, e da cui rimpiange, anzi, non potersi più fare ispirare. Quando a diciassette anni si tentò consolarmi di una “delusione d’amore” (termine peraltro falso), mi fu detto «a quindici anni, di solito, la gente pensa a divertirsi». È proprio questa gente, che a quindici anni pensa al divertimento e non all’edificazione di una vita, che oggi fornisce la più grande materia per la rivolta anarcoide contro le istituzioni capitalistiche con cui, fino a poco tempo fa, valeva un patto di mutuo foraggiamento.
Cosa resta, di questi umori pre-crisi (e che la crisi hanno contribuito a produrre), che emerge nella ricezione pubblica della scomparsa di Simoncelli?
Resta il fatto che, a oltre vent’anni (ventiquattro quelli di Simoncelli, ventidue quelli dei miei coetanei), si ritiene ancora la morte, per dirla con Kierkegaard, «paradosso e scandalo». E non si grida a ciò che è veramente scandalo – in questo caso, la mancanza di sicurezza nello sport – ma contro la morte in quanto tale, come se a quest’età non si fosse ancora imparato che la morte è un evento ineludibile, un fatto strutturale della vita. Non è in gioco il dolore che tutti, altrettanto ineludibilmente, proviamo per la scomparsa. È in gioco il fatto che non si accetti tale scomparsa. Non è, ad esempio, il dolore che si sente per la puntura, ma il rifiuto di fare la puntura. Solo i bambini rifiutano di fare la puntura. Il risultato di questa mancata vaccinazione, e dunque di questa mancata crescita, è, ancora, il vagheggiare un Paese di Bengodi per inseguire il quale si è accumulato, ad esempio, il debito pubblico che ci opprime. È il pretendere che la vita sia una festa: e non potendolo realmente ottenere, o si gridano frasi vuote (del tipo “noi il debito non lo paghiamo”), oppure ci si stringe attorno al corpo di una qualsiasi Celebrità elevandola ad eroe nazionale, a Milite Noto. E la coscienza della morte, quand’anche riconosciuta, non spinge alla valorizzazione massima della vita, ma nuovamente al compatimento del suo carattere non infinito. Non ci si lamenta, cioè, che la vita sia improgrammabile. Si compiange che non sia più possibile coniugare improgrammabilità e spensieratezza.

2 commenti:

  1. È un'analisi scarsamente operativa e decisamente forzata. Partire da premesse così sgangherate rende le conclusioni grottesche. Le differenze tra i sentimenti provocati dalla morte di Simoncelli e quelli provocati dalle morti di Galli, Mero e Padoa Schioppa non vanno interpretate in un'ottica "materialistica" o esistenzialista ma, più banalmente, devono essere ricondotte all'interno delle dinamiche della comunicazione di massa che hanno veicolato gli eventi.
    A) Galli, Mero e Simoncelli erano personaggi con livelli di popolarità "diffusa" enormemente differenti tra di loro e un'indagine seria non può non tenerlo in considerazione. Il motociclimo è sport meno seguito del calcio. Vero. Sono però sport completamente differenti tra loro, e completamente differente è l'esposizione mediatica dei loro protagonisti. In un campionato a 18-20 squadre partecipano più di 400 calciatori, mentre nella Motogp corrono circa 20 piloti. Per un pilota, qualsiasi pilota, di Motogp è molto più immediato diventare un personaggio pubblico rispetto a un calciatore, perché nonostante ci sia meno attenzione mediatica verso il motociclismo questa è più "concentrata" nei protagonisti. Galli e Mero erano conosciuti dagli addetti ai lavori, dai tifosi delle loro squadre e da qualche altro "maniaco" di calcio (e fantacalcio), ma non erano certo noti al grande pubblico che segue questo sport perché militavano in squadre di medio-bassa classifica. Simoncelli, pur non correndo per un team di primissima fascia, aveva una notorietà enormemente maggiore rispetto a Galli e Mero dato che non gli era difficile "entrare" in ogni servizio o articolo riguardante il Motomondiale, anche solo nell'ordine di arrivo di ogni gara. Se chiedessi a un appassionato di calcio di indicarmi il nome di almeno il 50% dei calciatori che giocano in serie A, questi non ne sarebbe capace perché avrebbe grossissime difficoltà a conoscere altri giocatori all'infuori di quelli che giocano nella sua squadra del cuore, nelle tre strisciate o che sono i calciatori più rappresentativi delle squadre di provincia. Se invece sottoponessi allo stesso esercizio una persona che segue anche solo saltuariamente il motomondiale, questi non avrebbe difficoltà a indicarti i nomi di almeno 10-11 centauri. Le caratteristiche del motomondiale aiutano nell'identificazione diretta e immediata dei suoi protagonisti, nel calcio questo è un processo più complesso. A ciò aggiungici alcune caratteristiche di Simoncelli che aiutavano a renderlo riconoscibile: la parlata romagnola nasale e strascicata, il vistoso taglio di capelli, la battuta pronta etc... Galli e Mero non avevano probabilmente la stessa personalità, ma anche se l'avessero avuta avrebbero avuto molta più difficoltà a farla "spiccare" tra gli oltre 400 colleghi.

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  2. Puoi aver ragione, resta il fatto che io all'epoca già conoscevo Galli e Mero, mentre ho appreso dell'esistenza di Simoncelli al momento della sua morte.

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