venerdì 4 novembre 2011

Matteo Renzi: breve antropologia di un populista di centro(destra).

(di Michail Schwartz)


Ormai s’è già scritto di tutto, molto parole sono state spese per Matteo Renzi ed il suo Big Bang fiorentino, tutte le maggiori testate nazionali l’hanno sbattuto in prima pagina e i dibattiti sul web sono solo iniziati; insomma, e’ stato (mediaticamente) un successo. La convention che ha portato piu’ di 5 mila persone nel capoluogo toscano per avanzare un progetto di rinnovamento all’interno della classe politica della sinistra ha creato un vero e proprio caso, nonché un piccolo terremoto tra le fila amiche. Non tutti infatti, all’interno del centrosinistra, si sono espressi calorosamente nei confronti del “rottamatore fiorentino”: Bersani ha parlato di “stupidaggine di dimensioni cosmiche” riferendosi alla tanto decantata distinzione giovani – vecchi, vero e proprio cavallo di battaglia dei rottamatori, mentre il leader di SEL Nichi Vendola lo ha liquidato con un secco “incapace di porre il tema della fuoriuscita dal disastro che il liberismo, in un trentennio, ha compiuto nel mondo intero”. Insomma non certo un’accoglienza calorosa per chi si propone come guida alla svolta nel panorama politico italiano. La mia riflessione però vuole partire da un commento rilasciato da Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, il quale, a seguito della convention fiorentina, ha dichiarato: “Renzi è un ottimo candidato per le primarie del centrodestra. Ha dei modi dannunziani che confermano l'egemonia culturale del berlusconismo”, parole che sintetizzano bene quello che e’ a mio avviso il profilo Renziano. 
Innanzitutto Matteo Renzi e’ il classico prodotto della cultura berlusconiana che ci egemonizza ormai da un ventennio. La sua mediaticità e la sua gestualità rituale, fatta di sms, iPhone e portatili onnipresenti (evidentemente ben sfruttati a livello mediatico[link]) è sì il frutto di un nuovo agire politico dettato dalla rivoluzione digitale, ma è allo stesso tempo sfruttata in maniera tale da attirare l’attenzione dei media e dell’audience inevitabilmente sulla sua persona, l’attrazione principale, il rottamatore per eccellenza, il nuovo volto della sinistra. L’uso estremamente personalistico del suo carisma e la tendenza ad accentrare su di se l’attenzione oltre che la “guida del vapore” non può che essere il frutto di una mentalità e di una cultura politica figlia del berlusconismo. L’impressione è che Renzi non sia semplicemente uno fra i tanti impegnati nel cambiare la mentalità del nostro paese, ma un aspirante leader, voglioso e desideroso di elevarsi a ruolo di guida di questo cambiamento. La contraddizione e’ presto servita: da vent’anni ormai la politica italiana e’ fatta di eroi, salvatori della patria, personaggi che costruiscono attorno alla loro persona movimenti e partiti per poi andare alla conquista di questo benedetto cambiamento, come può esso avvenire per mano di chi fa suo lo stesso modus operandi fino ad ora utilizzato? 
“Matteo Renzi, il sindaco che la destra ci invidia”. Questo e’ solo uno dei tanti epiteti rivolti al primo cittadino di Firenze da un po’ di tempo a questa parte, forse il più gentile. L’apertura dei negozi il Primo Maggio, il NO al referendum sull’acqua, l’uso di un linguaggio violento («dirigenti da rottamare», «dinosauri da estinguere»), l’idea che la politica sia essenzialmente un costo per i cittadini e il si al nucleare (passando per la visita ad Arcore e per il famoso “con Marchionne senza se e senza ma”) non lasciano molti dubbi sulla sua inclinazione ideologica, se non proprio di destra, sicuramente liberalconservatrice, dando l’impressione di volersi ritagliare uno spazio al centro più che a sinistra dello spettro politico (qualcuno comincia a parlare non a caso di “populismo di centro”). Il tutto chiaramente stride con la sua appartenenza partitica e soprattutto con l’elettorato al quale si ostina rivolgersi, un elettorato al quale propone una lista di 100 punti, molti dei quali non fanno che rimarcare questa sua atipica inclinazione al progressismo (diritto allo studio finanziato dalle banche, abolizione del valore legale del titolo di studio, nazionalizzazioni sfrenate ecc.). 
Il terzo aspetto che lo distingue è il rapporto con il partito, mantenuto per lungo tempo a livelli di insofferenza reciproca e sfociato ultimamente in scontri e strappi di una certa rilevanza (basti pensare all’ultima direzione metropolitana della sua città, Firenze [link]). Il problema principale non è assolutamente il piano di riforme che ormai da due anni sta portandosi dietro, anzi, ben vengano idee fresche. Il problema vero è il modo in cui queste vengono proposte e soprattutto il modo in cui lui stesso, Renzi, si pone nei confronti del Partito. Personalmente ritengo che il PD abbia un estremo bisogno di volti nuovi input innovativi e soprattutto di una sostanziosa dose di mediaticità, ma non credo che il modo giusto per apportare un contributo sia quello di correre da soli e non partecipare al dibattito interno. La convention dei giorni scorsi non e stata assolutamente percepita come un evento al quale, come minimo, fosse presente anche il partito; di esponenti se ne son visti pochi, alcuni sono stati censurati, di simboli manco a parlarne. Credo che un conto (per usare le parole di Bersani, prontamente travisate da Renzi) sia mettersi a disposizione del partito per sollevare nuove proposte e rinnovare il parco idee, mentre un altro conto sia accendere i riflettori sulla propria persona, utilizzare toni duri e parole pesanti contro i vertici e presentarsi in solitaria alla guida del cambiamento. Il cambiamento (appurato che sia necessario) deve avvenire attraverso il partito, non ai danni del partito. Se Renzi ha vere proposte di rinnovamento (magari un po’ più articolate e meno populiste dei famosi 100 punti) l’Assemblea Nazionale sarà più che felice di farle proprie e di discuterle assieme a Renzi stesso e magari pure con gli altri 2000 e più giovani (solo alla convention di Napoli) che allo stesso tempo provano ogni giorno a cambiare questo paese senza far uso abusivo della leva partitica. Se poi alla fine di questa ipotetica grande discussione interna, il buon Matteo decidesse pure di candidarsi alla guida del partito, nessuno glielo impedirà, ma solo al termine del mandato dell’attuale segretario, Pierluigi Bersani, eletto col consenso della maggioranza degli iscritti tramite primarie e, come da statuto, candidato premier del Partito Democratico.
In alternativa può sempre uscire dal PD, crearsi un suo partito personale e andare avanti nella sua battaglia per il cambiamento del paese, con gli stessi modi e gli stessi strumenti che il paese già conosce da ormai un ventennio
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