mercoledì 2 novembre 2011

Default pilotato e fuoriuscita dall'Euro: tutti i rischi di una scelta inattuabile.

(di Gaetano Caravella)

(Martedì 1 Novembre 2011). Nel momento in cui mi accingo a scrivere questo pezzo la crisi finanziaria internazionale ha assunto toni drammatici, soprattutto per quanto riguarda il nostro Paese. Mentre i maggiori indici europei sprofondano, con Milano e Francoforte già a -4% poco dopo l’apertura, la corsa del differenziale tra titoli italiani ( Btp) e tedeschi (Bund), il famigerato spread, fa registrare un nuovo record: prima 4,23%, poi ancora su fino a 436 punti base. Lo spread incide sul valore degli interessi che si pagheranno sul debito pubblico e indica il rischio percepito da chi acquista un’obbligazione (se è un titolo di stato si parla di rischio-paese). Uno spread troppo ampio fa schizzare gli interessi passivi e rende difficile emettere nuovo debito compromettendo in tal modo il “rating”, ovvero il giudizio di solvibilità dell'azienda o del paese emittente, in questo caso l’Italia (stroncata dalle maggiori agenzie internazionali). Non a caso stamattina i rendimenti dei Btp arrivano addirittura al 6,21%, superando la soglia psicologica del 6% che rappresenta per tutti gli Stati un pesante campanello d’allarme. Cosa vuol dire tutto ciò? 

Che i mercati non hanno ritenuto credibili, e soprattutto attuabili nel breve periodo, le promesse del governo Berlusconi contenute nella lettera d’intenti consegnata Mercoledì e quindi per prestarci denaro richiedono interessi sempre più alti. Per dirla in latino, “mala tempora currunt” e lo dimostrano i recenti dati provvisori dell’Istat: 8,3% di disoccupazione a Settembre ( il 29 % dei giovani tra i 15 e i 24 anni è senza lavoro) e inflazione al 3,4% ad Ottobre. Per non farci mancare nulla sul possibile crollo del sistema Euro il premier greco George Papandreou ha annunciato di voler sottoporre a un referendum popolare il piano di aiuti ad Atene che sta comportando sacrifici enormi per la popolazione.
Sono forse questi numeri e questi avvenimenti gli indizi di un possibile Default? Questo non e’ ancora dato a sapersi, fatto sta che il termine “default selettivo” è tornata ultimamente di moda come strumento per rispondere alla crisi dei debiti sovrani, prima invocato a gran voce dal popolo degli indignati e poi rilanciato da alcuni economisti; ma cosa significa tecnicamente per uno Stato dichiarare default?
Default è il termine tecnico che sostanzialmente indica il fallimento sul fronte economico di una nazione. E’ la situazione di un soggetto emittente (stato, ente, azienda) che non rispetta le clausole contrattuali previste nel regolamento di un finanziamento, ovvero la mancata corresponsione delle rate di interesse e/o il mancato rimborso del capitale alla naturale scadenza del debito. Il default è la naturale anticamera dell’insolvenza (a cui segue lo stato di bancarotta) e l’insolvenza (così come nel mondo reale) sopravviene quando il debitore non è più in grado di pagare i suoi debiti.
Esistono vari tipi di default: può essere tecnico quando vengono violate determinate clausole del contratto di finanziamento senza però sfociare nel mancato pagamento di interessi e debito, è sostanziale invece quando l’inadempienza è dovuta alla mancanza di disponibilità delle somme da destinare al rispetto degli impegni assunti. Può essere totale, selettivo e, quando è volontario, può essere definito strategico. Il default totale si verifica quando un emittente diventa inadempiente sul suo intero debito, è selettivo quando l’inadempienza riguarda solo una parte dei debiti (la parte rimanente viene regolarmente pagata), viene definito strategico quando un debitore sceglie di fare default.
Ma quanto conviene seguire la strada del default?
A guardare uno studio realizzato dall’Economist, gli effetti di un default sono stati spesso recuperati rapidamente, sul fronte del PIL, dalle economie dei paesi che hanno dichiarato fallimento. L’Argentina, per esempio, vide ridursi il proprio PIL del 10,9% nell’anno seguente al default del Dicembre 2001. Ma le cose iniziarono a migliorare già negli anni seguenti portando a una importante crescita del PIL. Qualcosa di analogo accadde anche a Russia, Uruguay e Indonesia.
La storia recente è ricca di default di stati: negli ultimi 15 anni abbiamo assistito, alla crisi finanziaria russa nel 1998, al default argentino del 2002 e a quello islandese del 2008.
Valgono queste esperienze come termine di paragone a cui l’ Italia dovrebbe ispirarsi?
Ad essere precisi i casi citati sono caratterizzati da situazioni strutturali talmente eterogenee da non permettere un’analisi uniforme dei vantaggi e degli svantaggi che hanno accompagnato il percorso di fallimento.
La crisi finanziaria russa del 1998, ad esempio, si concretizzò in una svalutazione del Rublo rispetto al dollaro, in un default sul debito interno (quello denominato in rubli) ed in una moratoria di 90 giorni imposta sulle obbligazioni delle banche russe verso creditori stranieri per evitare un default di massa del sistema bancario. Le conseguenze di questa scelta furono un tasso d'inflazione dell’84%, il raddoppio del prezzo degli alimentari, l’esplosione del costo del welfare e, nonostante la moratoria, il fallimento di numerose banche. La ripresa fu più rapida del previsto poiché essendo la Russia un paese ancora nella fase iniziale del suo sviluppo riuscì a sfruttare al meglio la globalizzazione dell’economia; inoltre, essendo un paese ricchissimo di materie prime come petrolio e gas, sfruttò la crescita della domanda di questi beni.
La crisi argentina venne affrontata in modo diametralmente opposto: invece di sacrificare il debito “interno” venne deciso di non rispettare il pagamento di un debito da un miliardo di dollari contratto con la World Bank. Questa decisione comportò la chiusura di ogni tipo di finanziamento dall’estero e quindi l’impossibilità di pagare i propri debiti. Contemporaneamente il governo abbandonò il tasso di cambio fisso con il Dollaro e svalutò il Pesos, in prima battuta, di circa il 40 per cento, in questo modo si restituì ossigeno all’industria e al sistema produttivo argentino. Grazie al default l'Argentina possiede oggigiorno un livello di debito estero ristrutturato inferiore al 45%. I costi di una decisione del genere furono però drammatici: isolamento internazionale, gente senza lavoro e Pil diminuito di circa il 40% a seguito della crisi di default. Nel solo 2002 il Pil crollò dell’11% rispetto all’anno prima.
Il default islandese ha suscitato grande clamore ed attenzione ed è probabilmente uno dei modelli a cui molti si ispirano nell’ipotesi di un default italiano. La strada seguita dagli islandesi fu quella di azzerare i debiti, mandare a casa i politici colpevoli della situazione e creare una nuova costituzione dal basso. L’esempio islandese suggerisce un “default pilotato” mediante la creazione di regole che permettano ai paesi in difficoltà di uscire per un certo periodo di tempo dall’Euro, rafforzarsi economicamente per poi rientrare, rispettando quei parametri stabiliti e ripianando il debito contratto.
Ma se c’è una cosa che questa breve analisi sui precedenti illustri di default evidenzia è la non assimilabilità della situazione italiana con quelle di Argentina, Russia e Islanda. In primo luogo per ragioni numeriche: il debito argentino era, al suo picco, pari a 120 miliardi di Dollari, mentre il debito pubblico italiano è oggi pari a 1.875 miliardi di Euro. Nel caso dell’Islanda stiamo parlando di un paese con 300.000 abitanti, di un paese che prima della crisi aveva un reddito pro capite tra i più elevati al mondo e un debito pubblico pari al 28% del Pil a fronte del 120% italiano; ma la ragione principale per cui la strada del default non mi pare percorribile per il nostro Paese è l’Euro.
E’ palese che l’Euro, nel caso in cui uno stato vada in difficoltà, non può fare default, porterebbe con se tutti gli stati dell’eurozona. L’unica via teorica sarebbe quella di un default pilotato, permettendo allo Stato di uscire per un certo periodo dall’Euro per poi rientrarci un volta risanata la situazione economica. Ragionando in astratto se l’Italia seguisse le orme islandesi dovrebbe garantire metà del suo debito pubblico, debito che si trova nelle mani dei cittadini e delle banche nazionali. Una proposta seria sarebbe quella di imporre una patrimoniale del 5% sull'1% della popolazione ad alto reddito, ovvero a quelle persone che da sole detengono il 45% della ricchezza nazionale. Con la sola patrimoniale si garantirebbe il debito interno. Per quanto riguarda il debito esterno, quello più complicato da gestire e che si trova nelle mani delle banche straniere, bisognerebbe rinegoziarlo e stabilire un programma di rimborso per un certo periodo di anni.
A questo punto la strada per uscire dall’Euro sarebbe il ritorno alla “Lira” la quale, svalutata a dovere, darebbe impulso alle esportazioni e alla competitività industriale. Tutto questo si potrebbe però fare solo di concerto con il resto dei paesi dell’Euro-zona. Tutto ciò non mi sembra possibile perché le banche francesi e quelle di altre paesi sono troppo esposte verso le nostre. L’uscita dall’Euro senza una legislazione che lo permetta potrebbe determinare la morte di tanti istituti di credito esposti, scatenando un effetto a valanga; e qui si apre il più importante interrogativo circa l’uscita dell’Italia dalla zona Euro per fare default: si può uscire legalmente dall’Euro? Si può uscire eventualmente in maniera illegale, cioè non rispettando i Trattati? E se sì, che cosa succederebbe dal punto di vista giuridico allo Stato che abbandona la moneta unica o addirittura l’Unione? Ma soprattutto: in che valuta andrebbero pagati i titoli di Stato originariamente denominati in Euro? Quale tribunale dovrebbe decidere un’eventuale causa? In una domanda: come verranno tutelati i creditori (banche, fondi istituzionali, risparmiatori) locali e stranieri?
La prima considerazione da fare è che non esiste un diritto di uscita dall’Euro o dall’Europa, visto che i Trattati sono irrevocabilmente fissati «per una durata illimitata». Di fatto, dunque, l’abbandono della moneta unica potrebbe avvenire solo tramite una revisione dei Trattati o tramite l'atto unilaterale di uno Stato: ad ogni modo con un atto politico che nessuno Stato mai adotterebbe in quanto ognuno, giustamente, è interessato a tutelare le proprie banche in un sistema concatenato in cui il default di uno Stato determinerebbe il crollo di tutto il sistema. Per questo non è ipotizzabile un ritorno al passato, piuttosto è auspicabile, per far fronte alla crisi dei debiti sovrani, una maggiore unione, innanzitutto fiscale, con l’emissione dei famigerati Eurobond, ormai diventati necessari.
Ma se non ritengo percorribile la strada di un default economico, c’è un altro tipo di default che reputo urgente e provvidenziale: il default politico dell’attuale classe dirigente, del Governo in carica che per anni ha negato la crisi con la logica del “Tutto va ben, Madama La Marchesa”.
Se è vero che, tralasciando la speculazione, il valore dei BTP e dello spread rappresenta l’indice di credibilità che ci danno i mercati, è altrettanto evidente che il Governo ha fallito e farebbe bene a lasciare prima di affondare un Paese immobile e in piena fase recessiva. In Spagna Zapatero ha dato un segnale di coerenza e rispetto verso i cittadini e i mercati lo hanno premiato. Il tempo delle barzellette è decisamente finito. E’ il momento di guardare solo ed esclusivamente avanti, dando prospettive valide e credibili.

1 commento:

  1. Già, il default politico della classe dirigente, di tutta la classe dirigente: 945 a Roma più i vari governanti di regioni e province, totalmente incapaci e senza referenze. Allora si, quella sarebbe una prospettiva credibile.

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